Quando mi domandano dove ho appreso le qualità estetiche, dove ho imparato a progettare interagendo con gli elementi naturali e tecnici quali la flora autoctona, il disegno, la pittura, il riciclo, per arrivare a paesaggi e giardini che sono la parte più bilanciata della mia creazione.. rispondo “davanti ad un agrumeto abbandonato”.

Sì, è stato lì che ho visto la forza genuina della natura.

Da bambino ho scoperto ú jaddinu, mio padre mi ci portava spesso. Immaginavo i giardini descritti sui libri, luoghi incantati, carichi di profumi e di fiori dai colori meravigliosi.

Ma sulla mia isola battuta dal sole e dal vento, ndo jaddinu gli alberi erano perfetti, quasi plastificati, i fiori rari, nessun insetto, solo quelli da combattere.. ed io vedevo questi paesaggi vuoti, le campagne sfigurate da un’agricoltura meccanizzata e senz’anima. Per i ‘giardinieri’, proprietari di frutteti, il bello viene attribuito a ciò che utile per una redditività immediata.

È solo quando dopo molto tempo e molti progetti osservai u iaddinu abbannunatu, che mi sentii invadere da una gioia indescrivibile. Finalmente le piante, gli insetti, i colori ed i profumi. Nulla supererà mai in bellezza un giardino un tempo soggetto a regole, architettato fino alla follia e perfettamente addomesticato, che ha ritrovato la libertà. 

Un filo invisibile nella mia vita unisce questi due luoghi, il giardino (o ú jaddinu) che per primo ho visto, e che era opera dell’uomo, e il giardino che io stesso ho creato con l’abbandono delle regole dell’utile. Ancora oggi quando vi passeggio, mi accade, proprio come quella prima volta, di trovare un ordine felice.